La disciplina del telelavoro nella pubblica amministrazione con riferimento al DPR n.70 del 8 marzo 1999, definisce appunto il telelavoro “la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente di una amministrazione pubblica in un qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato fuori dalla sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce”.
In seguito, l’accordo del 09 giugno 2004 definisce il telelavoro come “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale di tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”.
La prima e la seconda definizione insistono su due dei tre elementi costitutivi:
1. il telelavoro è svolto a distanza (delocalizzazione dell’attività produttiva);
2. il telelavoro è svolto mediante l’utilizzo di computer;
3. l’attività lavorativa potrebbe comunque essere svolta nei locali dell’impresa. A tale requisito è connesso l’elemento della volontarietà, in quanto il fatto che l’attività lavorativa sia svolta a distanza deriva da un preciso atto di volontà del lavoratore. Infatti, a norma dell’articolo 2 dell’ accordo interconfederale del 9 giugno 2004, il telelavoro consegue ad una scelta volontaria del datore e del datore di lavoro.
Il rifiuto da parte del lavoratore di optare per il telelavoro non costituisce di per sé motivo di licenziamento.