Il capo è ritenuto incapace dal 51 per cento dei dipendenti. Meno di uno su cinque dà un giudizio positivo. Le stroncature soprattutto nelle piccole imprese. Mancano le politiche di valutazione e di comunicazione condivise. Si salvano nel marketing e nella comunicazione. I risultati di un’indagine di OD&M sul clima aziendale.
Sono l’anello di congiunzione tra chi tira le fila delle imprese e tutti gli altri. Sono il perno delle attività. Da loro arrivano le linee di guida. Da loro arriva, o dovrebbe arrivare, l’apprezzamento e il riconoscimento per i collaboratori che li aiutano a raggiungere gli obiettivi. Ma qualcosa nelle imprese italiane non va. Sì, perché dirigenti, quadri e capi d’ufficio, non passano l’esame dei loro dipendenti. Anche loro, come i politici, paiono travolti dalla critica che va verso chi detiene una forma di potere per quella incapacità a gestirla nel migliore dei modi e per il bene della comunità a cui appartengono.
Più della metà dei lavoratori italiani non ci pensa troppo a bocciare chi guida l’ufficio o la linea produttiva. Il 51,1 per cento valuta il proprio capo come “scarso” e solo meno di uno su cinque (il 19,7 per cento) dice di avere sopra di sé un responsabile ottimo o buono (vedi tabella). Il resto (il 27,4 per cento) ritiene che chi ha la responsabilità negli uffici e nelle attività produttive non merita niente di più che una striminzita sufficienza. E’ quanto emerge, tra l’altro, dai risultati di un’indagine di OD&M sul clima aziendale, impresa di consulenza nei sistemi incentivanti e delle politiche retributive delle risorse umane, che ha interrogato un campione di circa 2 mila dipendenti.
Parlare male del capo, si dirà, è un po’ come lamentarsi del traffico nel bel mezzo di un ingorgo. E’ una cosa persino troppo banale. Nessuno ne fa a meno. Sta nelle cose. Chi comanda da un lato. Tutti gli altri dall’altro. A lamentarsi. Pare a vederlo così, una specie di esercizio retorico dal quale non ci si riesce a tirare indietro. Ma non è solo questo. C’è di più. In quella specie di nenia che si manda a memoria dal recesso della propria scrivania, sta nascosta una verità più profonda e svela il disagio per qualcosa che non va nel meccanismo delle imprese. Nelle aziende coinvolte, dicono gli autori dell’indagine, probabilmente “mancano delle politiche di valutazione e di comunicazione condivise che poi si possano riflettere a cascata sui diversi livelli dell’organizzazione”.
Nel dettaglio, il giudizio peggiora se si guarda al segmento di quei lavoratori che non sono soddisfatti del proprio lavoro. In questo caso si raggiunge una bocciatura severa che arriva dal 70 per cento delle persone. Ma altrettanto sorprendente è il basso livello di apprezzamento che i capi incassano anche da chi si dichiara ampiamente soddisfatto del proprio lavoro quotidiano. Non sempre le lamentele sono esplicite. Ma negli uffici si trova sempre il modo. Tanto che molti di questi capi, anche a loro insaputa, si portano appresso dei nomignoli, degli appellativi che gli impiegati si sussurrano di scrivania in scrivania o che utilizzano quando nella pausa pranzo, nel timore di essere ascoltati, si sfogano utilizzando quel linguaggio in codice per mettere alla berlina chi gestisci i loro destini professionali.
Le bocciature avvengono soprattutto nelle piccole imprese dove il 53 per cento dei dipendenti ritengono che i propri capi hanno una limitata capacità nella gestione dei collaboratori. Meglio, pure se di poco, va nelle imprese di grandi dimensioni (47 per cento). Nelle medie imprese la quota si ferma al 51 per cento (vedi tabella).
Quanto alle diverse aree funzionali, è soprattutto nelle aree tecniche che i giudizi sono meno soddisfacenti. Nelle aree della ricerca e sviluppo e dell’information technology la promozione piena la raccolgono solo il 17 per cento e il 19 per cento dei responsabili (vedi tabella). E’ invece nell’area del marketing e nel commerciale che si trovano i giudizi migliori (22 per cento).
Per Robert Jackall, professore di sociologia al Williams College nel Massachusetts (Stati Uniti), le trasformazioni delle grandi imprese hanno mutato anche il ruolo dei manager. Per i manager moderni, alle prese con lotte di potere e fusioni, scrive Jackall in “Labirinti Morali”, la preoccupazione principale è diventata quella di capire dove tira il vento. Più che la creatività e la pianificazione aziendale, dice il sociologo, per loro conta la capacità ad adattarsi a qualsiasi stravolgimento nelle gerarchie di potere. Le decisioni è meglio non prenderle affatto. Se saranno indovinate il merito se lo assumeranno i vertici dell’azienda. Se si mostreranno sbagliate le si pagheranno care. Meglio aspettare allora. I dipendenti, pare, la pensano come il sociologo.
Fonte: La Repubblica, 06 Giugno 2007