Scrive troppo poco, è questo il suo difetto. Vorrei sedermi ogni mattina con il caffè in una mano, il click dei feed per l’altra e veder lampeggiare CP. Invece si deve destreggiare tra dieci lavori per tirarne fuori uno par-time e vabbé… Aspetterò il giorno che qualche residuo di cervello editoriale si faccia venire l’idea di pubblicare Casalinga Precaria, così per portarmi a casa qualcosa di sensato dalla libreria e vivere una di quelle rare occasioni in cui segno e significante si incontrano sulla stessa pagina. ll pezzo sotto è pubblicato per soave concessione della Casalinga stessa e vi stamperà un bel sorriso amaro sulle vostre facce da giovedì, cari i miei precari. D’altra parte, per il call center ci siamo passati un po’ tutti…
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Ciò che chiamiamo call center, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso tanfo dolce
ho imparato che per sopravvivere è consigliato onorare,con un certo margine preventivo, il proprio pedigree sociale in caso di attacco alle spalle.
così, da un po’ di tempo, ho smesso di sbraitare il mio atto di dolore contro il mondo e il precariato e quella stronza della prof che non metteva a nessuno un voto più alto del sette se non alla mia (ex) compagna di scuola secchiona. (perché lei è la più brava di tutti, anche quando sbaglia. e va premiata. cosa che non mi ha mai convinto abbastanza da darmi pace, nonostante gli anni.)
dunque, è da un po’ che non mi lamento in situazioni pubbliche (a parte quelle virtuali) per il mio a-status a-sociale. anche perché mi hanno detto che le cose brutte sono come le cose vere: non si dicono. e allora, io quando esco dico solo cose belle e tante tantissime bugie. tipo che quando mi chiedono cosa faccio, dico che non mi va di fare un emerito nulla nella vita e che sto aspettando che qualcuno mi si pigli, e che magari abbia uno spirito imprenditoriale talmente avanzato da assumermi nella sua azienda pubblica, nella sua impresa privata, nel suo ufficio, in casa sua.
se invece incontro un maschietto, prima gli chiedo cosa fa e poi gli dico che io faccio esattamente la stessa cosa, ma ad un livello superiore. che potrei essere il suo capo, che sono bravissima e che in questo momento me lo dico da sola perché non ho qui la clack, ma mi sto attrezzando per portarmi la mia personale coorte appresso, che mi applauda e mi gratifichi ad ogni battito di ciglia.
cavalco quest’onda anomala del conformismo immateriale, e gli schiaffi morali che il suo rinfrangersi produce su di me non mi danno poi molto fastidio. ad esempio, invece che le pecorelle la notte conto le parole che non potrò dire e mi addormento lo stesso. poi ho sviluppato moltissimo le mie abilità psicomotorie,adesso che a ridere fuoriluogo sono solo le mie sopracciglia.
ma l’altra sera ero a cena con una mia cara amica e una cara amica della mia cara amica. il primo argomento di cui si parlava è stato naturalmente il lavoro. ho allertato subito il mio nuovo selfcontrol, ho resettato l’amigdala e ascoltato in silenzio il commovente comizio della cara amica della mia cara amica.
non è un caso che siamo qui a cena stasera. devo festeggiare la mia semiassunzione a tempo semindeterminato. dopo sei mesi di stage, sono stata semiassunta per un part time in questa prestigiosa multinazionale di madre americana e di padre italiano. è la svolta, ragazze. (deglutisce) credo proprio di avercela fatta. mi pagano 800 euro per 24 ore settimanali e sono libera di scegliere se lavorare otto ore al giorno per due giorni a settimana oppure 4 ore al giorno per tutta la settimana. è un lavoro di grande responsabilità, in cui la multinazionale ha investito tanto. mi occupo di custumer care che, grazie alla mia laurea, è in-bound. l’out-bound è solo per i diplomati, i laureandi o gli ex cassaintegrati.
le chiedo, cosa sia in parole povere e italiane questo lavoro. davvero, non lo avevo capito. colpa dei miei neuroni azzerati o della fame. non lo so.
il livore del suo silenzio mi giudica in modo inequivocabile. ancora una volta sono uscita dal seminato socialdemocratico. la tosse posticcia della mia cara amica è in ritardo, colpa mia che ultimamente sono stata brava bravissima a capire tutto al volo senza capire un tubo.
la cara amica della mia cara amica prende un morso del souvlaki (interno, sera, ristorante greco. ho dimenticato di scriverlo prima) e dopo averlo lentamente coccolato tra denti e saliva, mi risponde.
significa assistere per telefono i clienti della multinazionale quando hanno bisogno di aiuto. invece nell’out-bound sei tu che cerchi clienti per la multinazionale.
lavori in un callcenter. hanno infighettato il pachiderma e te lo hanno venduto come bozzolo da cui sta per nascere una farfalla bellissima.
ebbene sì. ho rotto il patto sovrano, sono tornata la campana che suona il rock durante la messa. l’amica della mia amica ha continuato per tutta la sera a dire che non lavora al call center, che fa la project manager addetta al custumer care in-bound di una prestiogiosa multinazionale.
semplicemente sono abituata a chiamare le cose con il loro nome e che tanto se non lo faccio io, prima o poi lo farà qualcun altro. le ho detto questo. (e anche che non mi interessa niente di come lo chiama lei, ma è un call center se non di nome, di fatto)
lei era già partita con la manfrina che riderà bene chi riderà sulla poltrona dirigenziale della succursale di questa azienda. posto che le hanno garantito di ottenere se solo saprà usare la sua laurea e il suo master per convincere i clienti che non esiste guasto che non possa essere riparato.
compreso quel guasto mentale che è la verità. una forma di epatite che se ti infetta, ti può portare a qualcosa di molto simile alla fine, e cioè un logorroico silenzio.
Riprodotto su soave autorizzazione dell’Autrice, rintracciabile dalle parti del blog della Casalinga Precaria