Riportiamo un buon editoriale a firma di Sergio Ferrari e Roberto Romano apparso ieri sul Manifesto. Purtroppo non altrettanto buono il convegno organizzato sempre ieri a Roma, dal titolo “L’economia della precarietà“.
Sfilano i soliti nomi di luminari e illustri accademici, i soliti nomi del giornalismo, le solite sigle sindacali e i soliti luoghi comuni sull’economia del precariato. Sarebbe bastata una piccolissima mossa innovativa: invitare a parlare un precario.
Dite che non lo troviamo in tutta Italia un giornalista o un economista o un ricercatore precario che si interessa di precariato?!
E, gran finale, la tavola rotonda! Intervengono a parlare di precariato: Oliviero Diliberto (Segr.Pdci), Paolo Ferrero (Ministro della Solidarietà Sociale), Franco Giordano (Segr.Prc), Fabio Mussi (Ministro dell’Università e Ricerca), Nicola Nicolosi (Coord.naz.Lavoro e Società, Cgil), Alfonso Pecoraro Scanio (Ministro dell’Ambiente), Gianni Rinaldini (Segr.gen.Fiom-Cgil), Cesare Salvi (Senatore, Capogruppo Sd)
Chissà se uno solo di loro, solo uno, ha un figlio precario…chissà.
L’economia della precarietà – Editoriale
Il Manifesto, 9 Ottobre 2007Il convegno di oggi a Roma (L’economia della precarietà, Centro Congressi Cavour) potrebbe aprire una riflessione sul quadro politico, non occupandosi di partiti e di organigrammi, ma dei problemi del paese. Non condividiamo l’antitesi, ma la distinzione esiste e se non sappiamo cosa fare e che decisioni assumere, diventa difficile costruire un progetto.
Sono ormai alcuni lustri che il nostro paese segna un differenziale di crescita negativo rispetto ai paesi Ue. Abbiamo letto tutte le interpretazioni possibili di questo divario, compreso quelle molto apprezzate che fanno finta di niente. Abbiamo perso anni dietro la questione del costo del lavoro e dintorni. Un’affermazione priva di fondamento dal momento che il nostro costo del lavoro era e continua ad essere il più basso e foriero del malessere sociale diffuso. Abbiamo sentito altre «invenzioni». Assistiamo all’incredibile colpevolizzazione della scuola e dell’università che non creerebbe giovani adatti al lavoro, mettendo in crisi le nostre imprese. Secondo questa «scuola» sarebbe questa la causa di quell’encefalogramma piatto offerto dall’andamento dei livelli professionali e di ricerca nel nostro sistema economico. In ultima analisi, dopo le terapie da svalutazione, oggi saremmo costretti a giocare sul costo dei fattori e sugli incentivi pubblici. Sembra che i nostri giovani vadano bene all’estero ma non da noi.
Questo tipo di crisi e di dibattito può essere superato solo ponendo sul tappeto un approccio diverso. Che senso avrebbe, altrimenti, parlare di società della conoscenza? Al di là degli slogan, battute come queste dicono che gli strumenti d’intervento sulla vita degli uomini si sono ampliati e che la nostra vita potrebbe essere migliore. Conosciamo tutte le ombre, le sconfitte e la possibile valenza contraddittoria delle conoscenze quando sono tradotte in innovazione tecnologica; ma soprattutto sappiamo che esistono anche percorsi di ritorno che possono trovare alimento nella conoscenza.
In questo nuovo quadro politico come si pone la questione della democrazia? Se si è interessati ai processi di sviluppo della democrazia, se la parola socialismo rappresenta un riferimento ideale concreto, se vogliamo essere attori non passivi del nostro tempo, dobbiamo misurarci con le novità introdotte da questa «società della conoscenza» partendo dalla necessità di sviluppare una società più libera, più giusta e più ricca perché diversamente ricca.
Ma questa è la questione del vincolo posto al nostro paese dalla specificità di una crisi economica che è tale perché ci vede privi di attori e struttura con le quali dominare la qualità del nostro sviluppo. Questa nostra situazione ha due possibili sbocchi: la decadenza e/o la meridionalizzazione, oppure un nuovo ruolo dell’intervento pubblico nelle forme e negli strumenti. Di questo sarebbe opportuno discutere.