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L’ITALIA IMMOBILE DEI LAUREATI

Scritto da: Redazione Bloglavoro 28 Febbraio 2008 – 12 Febbraio 2009 - 16:37

Dell’Italia immobile dei laureati ne parla in un bell’articolo di ieri Federico Pace, su La Repubblica. Fotografa un’Italia davvero immobile, quella che in assenza di spinte e raccomandazioni non sale. Figli di dirigenti che fanno i dirigenti, figli di operai che fanno gli operai. Questo immobilismo sociale ovviamente non giova a nessuno. Non bastasse, solo il 53% dei giovani trova lavoro a un anno dalla laurea, con gravi disparità tra nord e sud.
Le disparità maggiori restano quelle tra uomini e donne: lavora entro un anno dalla laurea il 57% degli uomini e il 50% delle donne. Eppure le statistiche ci dicono che le donne sono in maggioranza tra i nuovi laureati e soprattutto sono in decisa maggioranza nella fascia delle votazioni di eccellenza. Eppure faticano ancora ad inserirsi nel lavoro.
Non ultimo, un dato allarmante: solo a cinque anni dalla laurea il 70% ottiene un impiego stabile, spesso con paghe di poco superiori a mille euro al mese.

Ma il vero dato inquietante secondo noi è quello di immobilità sociale: A questo si aggiunga la scarsa mobilità sociale. Secondo i dati di AlmaLaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo un giovane laureato figlio di operai guadagna 1.238 euro al mese, mentre un ragazzo con lo stesso titolo di laurea ma che proviene da una classe più agiata riesce a portare a casa 1.437 euro: ovvero 200 euro in più ogni trenta giorni.

E ancora, poco più avanti: il 16 per cento dei figli di dirigenti arriva, dopo solo cinque anni dal titolo di laurea, a ricoprire la carica d funzionario o dirigente mentre a più del quaranta per cento dei figli di impiegati succede di ripercorrere il sentiero professionale del padre.

Quindi la maggioranza delle aziende italiane sembrerebbe valutare maggiormente, da questi dati, il capitale genetico piuttosto che il capitale umano.

Di seguito l’articolo:

L’Italia immobile dei laureati. i figli degli operai guadagnano meno. di FEDERICO PACE, La Repubblica, 28 Febbraio 2008

Figli di dirigenti che diventano dirigenti e figli d’impiegati che diventano impiegati. Paghe che si fanno sempre più esili, occupazioni persistentemente precarie e disparità di genere e geografiche che permangono nella loro gravità. Una società priva di dinamismo sociale ed economico. Sono tutt’altro che liete le scoperte che quest’anno gli oltre trecentomila neolaureati, la cui truppa di anno in anno andrà facendosi più esigua per ragioni demografiche, hanno fatto al momento di approdare nel frastagliato mondo del lavoro.

Quest’anno un neolaureato si è ritrovato nella propria busta paga 1.040 euro. Una cifra che, in termini di potere di acquisto, vale il 92,9 per cento di quello che guadagnava un neolaureato del 2001 (vedi tabella). E seppure aumenta lievemente il tasso di occupazione, il 48 per cento si ritrova ancora a fare i conti con un tipo di lavoro dalla natura precaria.

I dati sono quelli del X Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati italiani presentato oggi a Catania da AlmaLaurea, il consorzio che riunisce cinquantuno università italiane e che ha raccolto la testimonianza di 92 mila laureati.

Partiamo però dal lieve miglioramento occupazionale. Quest’anno ha trovato lavoro, a un anno dalla laurea, il 53 per cento dei giovani, ovvero poco più di mezzo punto percentuale in più rispetto all’anno scorso (vedi tabella). Anche la disoccupazione ha segnato una parziale battuta d’arresto pari allo 0,5 per cento. Rimangono però evidenti le disparità tra uomini e donne. Lavora il 57 per cento dei primi contro il 50 per cento delle seconde. Così come al Mezzogiorno il tasso di occupazione è ancora inferiore a oltre venti punti percentuali di quello dei loro coetanei residenti al Nord.

Quanto alla precarietà le cose non sembrano migliorare significativamente. Dal 2000 a oggi il lavoro stabile ha subito una contrazione in termini percentuali che lo ha visto passare dal 46 per cento al 39 per cento, mentre il lavoro atipico ha registrato, nello stesso intervallo di tempo, un aumento di dieci punti percentuali. Nell’ultimo anno la proporzione di persone con un lavoro stabile, ad un anno dalla laurea, è aumentato lievemente ma di fatto i due insiemi sembrano avere invertito, almeno per i primi anni lavorativi, il peso all’interno di un’occupazione che è divenuta più marcatamente precaria. Solo dopo cinque anni dalla laurea, la gran parte (il 70 per cento) dei laureati riesce ad ottenere un impiego stabile.

Ma veniamo alla paga. Seppure i laureati hanno avuto a disposizione lungo tutto l’arco della vita uno stipendio significativamente superiore a quello dei loro coetanei diplomati, la laurea ora non sembra essere più così premiante. Quest’anno la paga media è stata di poco superiore a mille euro e inferiore, in termini di potere d’acquisto, a quella del 2001. Ad essere penalizzate sono sempre le donne che quest’anno portano a casa solo 925 euro rispetto ai 1.186 dei loro coetanei uomini. Dopo cinque anni la paga sale in media a 1.342 euro con costanti disparità territoriali: al Nord si toccano i 1.382 euro, al Centro i 1.288 mentre al Sud si rimane fermi a 1.195 euro.

Che i giovani di oggi fossero destinati a un futuro meno roseo dei loro genitori lo si era cominciato a capire da tempo. Ma arrivano sempre più conferme di quello che sta accadendo. Qualche mese fa, uno studio di alcuni ricercatori della Banca d’Italia aveva mostrato come negli anni Novanta la retribuzione dei giovani avesse subito una riduzione significativa rispetto a quella dei loro colleghi più maturi, e come alla misera paga d’ingresso, si era andata sovrapponendo una carriera molto meno dinamica e quindi incapace di assicurare una crescita retributiva che compensasse una partenza così fiacca.

A questo si aggiunga la scarsa mobilità sociale. Secondo i dati di AlmaLaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo un giovane laureato figlio di operai guadagna 1.238 euro al mese, mentre un ragazzo con lo stesso titolo di laurea ma che proviene da una classe più agiata riesce a portare a casa 1.437 euro: ovvero 200 euro in più ogni trenta giorni. E queste differenze si notano in tutte le facoltà. Per chi esce da economia e statistica diventano anche più acute: 1.276 euro ai figli di operai e 1.519 euro ai figli di chi sta più in alto nella gerarchia sociale. Tra gli ingegneri la differenza è di poco inferiore ai 200 euro (1.574 euro contro i 1.759 euro), tra i giuristi e i laureati del gruppo politico sociale siamo sempre sopra ai cento euro al mese.

Insomma di padre in figlio. Se ne può trovare conferma anche se si va ad analizzare il titolo di studio di laurea del genitore e quello della prole. Si scopre che buona parte dei padri architetti (il 44 per cento) ha un figlio laureato in architettura, quattro giuristi su dieci hanno un figlio laureato in giurisprudenza e lo stesso accade agli ingegneri, ai farmacisti e ai medici (vedi la tabella). Con evidenti ricadute sui percorsi occupazionali. Tanto che il 16 per cento dei figli di dirigenti arriva, dopo solo cinque anni dal titolo di laurea, a ricoprire la carica d funzionario o dirigente mentre a più del quaranta per cento dei figli di impiegati succede di ripercorrere il sentiero professionale del padre.
Tutto il fragore degli anni degli studi universitari, tutti quei giorni in cui si avvicendano entusiasmi e fatiche, una volta arrivato il tempo dell’occupazione pare dissolversi per venire sostituito dalla constatazione che la società italiana si è avvitata su se stessa relegando la mobilità sociale allo status di chimera. Se si vuole davvero rilanciare l’economia italiana, si dovrà fare qualcosa.
Al Governo futuro, Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea manda la raccomandazione di aiutare le piccole e medie aziende a “compiere innovazioni di processo e di prodotto e a dotarsi di capitale umano qualificato favorendo la formazione di studi associati” perché la ripresa, ha concluso Cammelli, “passa attraverso la valorizzazione delle risorse migliori che abbiamo: i tanti talenti che escono dalle università, forse più numerosi e migliori di quanto non siamo in grado di formare nelle nostre aule”.

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