La Suprema Corte affermando che “l’individuazione del tempo necessario a determinare mobbing è un procedimento logico complesso, in cui è necessario considerare l’ambiente socio-culturale in cui il conflitto si svolge, le relazioni psicologiche del mobbizzato e lo specifico lavoro svolto“, ha cassato la sentenza della corte di appello di Torino che aveva rigettato le tesi della lavoratrice sostenendo, al contrario, che la “protrazione del comportamento per sei mesi non fosse sufficiente a concretizzare mobbing”.
La S.C. ha inoltre riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per la condotta mobbizante attuata dal suo dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica (nella specie con qualifica di quadro) rispetto alla vittima, precisando che “non esclude tale responsabilità un mero – tardivo – “intervento pacificatore”, non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un’aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto “mobbizante””.
Nel corso della motivazione la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che “il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti“, nonché “la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione ed all’emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico”.
Lo specifico intento del comportamento e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.). “Fondamento dell’illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l’obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore”.
Pertanto il datore di lavoro è responsabile, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, anche se il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente (ex art. 2049 cod. civ.) per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo.
FONTE: Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2008