“Vi abbiamo licenziati, non venite in ufficio” . Motorola, il drammatico racconto della crisi dall’interno. Non siamo ancora ai licenziati via email dalla quarta banca d’affari Usa, la Lehman Brothers, usciti dall’ex luogo di lavoro con gli scatoloni sulle braccia, ma poco ci manca. Stamattina i 150 dipendenti del Centro ricerche
Motorola incontreranno la direzione per un confronto che ha il sapore del licenziamento. Per altri 150 lavoratori con contratto a termine, il ben servito è arrivato già venerdì scorso. «Lunedì non presentatevi in ufficio» si sono sentiti dire e tanti saluti. Anche stavolta ci sono di mezzo gli scatoloni. «Sono spariti dalla
circolazione tutti quelli che ingombravano le nostre scrivanie – racconta un giovane ingegnere -, evidentemente i vertici aziendali temevano potessimo usarli per portarci via tutto quello che potevamo prendere, computer, telefonini, prototipi, per la rabbia di essere liquidati su due piedi».
Com’è accaduto nella sedi francesi di Rennes e Toulouse. «Lì i nostri colleghi si misero a giocare a pallone in ufficio per esprimere tutta la frustrazione accumulata alla notizia di perdere il posto di lavoro dalla sera alla
mattina».
In via Cardinal Massaia – dove la Motorola subalpina si trasferì dalla prima sede, la Cir di De Benedetti – ai dipendenti assunti a tempo indeterminato (quasi tutti laureati in ingegneria, informatica o fisica) non è ancora arrivata una comunicazione ufficiale, ma la paura di tagli si fonda su ben più di un cattivo presentimento. «I dirigenti sono stati chiarissimi – prosegue l’ingegnere -, “Non possiamo darvi i particolari, ma tira una brutta aria: preparatevi al peggio” ci hanno detto venerdì scorso. E che cosa avrebbero dovuto aggiungere? Il loro atteggiamento è inequivocabile, tanto più se paragonato alle rassicurazioni che dispensavano due anni fa».
Anche allora tirava una brutta aria in previsione dell’accorpamento del settore software alla divisione telefonini, ma «all’epoca fummo tranquillizzati: ci dissero che sicuramente si sarebbe trovata una
soluzione. E così fu. Ma adesso no, tant’è vero che i dirigenti non se la sono sentita di prenderci in giro». All’ansia per il futuro, «a 35-40 anni siamo già considerati dei “vecchi”», si aggiunge l’amarezza per una politica aziendale che «sposta non solo la produzione, ma anche la progettazione e la ricerca in Paesi come la Cina e l’India. Eravamo considerati il fiore all’occhiello di Torino. L’esempio della città industriale in grado di riconvertirsi in centro d’eccellenza hi-tech. Parole. Soltanto parole».
Ad indispettire i dipendenti c’è inoltre la contraddizione di alcune
operazioni da parte dei vertici. «Venerdì hanno praticamente annunciato il
licenziamento a chi aveva un contratto a termine, ai consulenti e agli
interinali. Peccato che appena quattro giorni prima avevano affidato alcune
consulenze. Che senso ha tutto questo? Non riusciamo a farcene una ragione,
a parte la consapevolezza che evidentemente dagli Stati Uniti prendono
decisioni in maniera repentina».
E intanto c’è già qualcuno che dall’open space dei 10 mila metri quadri, su
6 piani, di via Cardinal Massaia è pronto a dare battaglia, «ma il guaio è
che siamo poco sindacalizzati: non abbiamo neppure le Rsu».
Fonte: La Stampa, 02 Novembre 2008