Ieri abbiamo esultato per il fatto che la protesta degli operai della Innse era andata a buon fine e si era trovato finalmente un accordo. Oggi ci scrive Aurora, che la protesta l’ha vissuta da molto vicino, che è stata lì a manifestare, che ci è voluta essere e che fa un paio di riflessioni che vale la pena di leggere, per questo abbiamo deciso di pubblicare il suo commento in home page.
Aurora, da Milano: “Se un lontano giorno del 2005 mia cognata non mi avesse incitato a difendere i miei diritti, alla scadenza del mio permesso di soggiorno per studi, io, dopo dodici in Italia, avrei dovuto abbandonare questo paese secondo una lettera di espulsione che di lì a poco mi sarebbe stata inviata dalla questura di Milano. Avrei dovuto separarmi da questo paese che amo tanto, nonostante quel velo di inaffidabile, donna calda, incostante, bugiarda, ma così sincera, possiede. Parla tanto, ma la sua verità risiede nelle azioni, nel suo corpo che non si smentisce mai. Mettila sotto pressione e ti darà ciò che ti ha rubato, il tuo cuore. Così, io vedo l’Italia. E non si è smentita neanche stavolta.
Alle ore 18.40 di martedì, undici agosto c’è aria viziata camminando accanto alle tende situate davanti la fabbrica Innse di via Rubattino di Milano. Il caldo esaspera ancora di più le ore di attesa. Mi siedo sotto una tenda per restare in ombra. Poco più in là vedo sdraiata una donna di mezza età che si copre la testa con una mano, dove tiene l’accendino per le frequenti sigarette. Mi dà l’impressione di chi sia stato lì per lungo tempo. Di fronte, pulmini della Rai e di altre reti televisive; giornalisti che vanno e vengono, qualcuno che rilascia interviste, rappresentanti di associazioni, panini e pizze, familiari, cani e qualche bambino. Dietro di me, quindi davanti alla fabbrica, circa nove pulmini della polizia. Ne arrivano poi cinque per dare il cambio alle guardie.
Da questa mattina sono in atto le trattative tra il gruppo acquirente Camozzi e Genta, proprietaria della fabbrica. Uno degli operai più giovani è anche il marito della mia collega di lavoro. Non parla molto, ma trattiene la tensione che si nota dalle sue sopracciglia annuvolate. Mi confessa che ha un brutto presentimento e gli chiedo perché. Mi dice che ci stanno impiegando troppo tempo e teme che tutto possa morire nell’aria. E’ una tensione che nasconde quindici mesi passati in questo modo, negli svariati tentativi di catturare l’attenzione dei media, come quello più tragico di salire su una gru per molti giorni.
Alle ore 20.30 il rappresentante di un’associazione comunica tramite un piccolo altoparlante che le trattative sono a buon punto, che entro mezzanotte si prenderà una decisione. L’elemento ansante però risiede nell’affermazione che il gruppo Camozzi ha fatto, e cioè, se Genta non accetta l’offerta, rinuncia all’acquisto. Il comunicatore incita alla resistenza, affermando che si andrà fino a Torino e che forse stasera si avrà bisogno di forza d’azione.
Alle ore 22.00 le mogli dei cinque operai salgono per la prima volta sulla gru per salutarli.
Stamane, mercoledì dodici agosto apprendo dalla mia collega che a mezzanotte e mezza, davanti all’Innse c’è stata una festa indimenticabile. Che suo marito ha pianto per la felicità, poiché l’accordo c’è stato e si ricomincerà a lavorare. Il presidio rimane fino a settembre, fino all’effettiva firma dei contratti.
Una volta Charlot tesseva le sue poesie cinematografiche nel cuore di questi tempi moderni che continuiamo a vivere. Erano le fabbriche, appunto. Von Trier colse il ritmo dei loro macchinari e lo tradusse in musica. E c’è qualcuno che vuole convincermi che non ci sia un’anima in loro quando vengono messi in moto? E chi è che li mette in moto? Chi fa sì che costoro abbiano il diritto di esistere? L’uomo. E se non vengono rispettati i diritti dell’uomo, quali saranno i futuri diritti di una macchina?”